Cengia Martini: uomini d’oro

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    Il verde è ormai padrone delle alture che circondano i centri abitati. Sfumature smeraldine si inseguono, s’accendono nei toni in un continuo alternarsi tra pascoli e larici e cembri profumati. Sul fitto tappeto d’erba, piccoli capolavori miniati, saturi di colore. Sono i fiori di montagna. E poi, loro: giganteschi monoliti di dolomia che affiorano dai prati, bianchi nella luce delle ore centrali, grigi e cupi addirittura spettrali durante i temporali estivi. Arancioni quasi rossi, come coralli marini all’imbrunire. Questa terra appartiene alla Ladinia e al Cadore, è la conca ampezzana incorniciata dal Cristallo, dal Sorapis, dalla Croda del Lago e dal Nuvolao.

     

    Ancora dai profili irregolari delle Tofane, del Lagazuoi e delle Cinque Torri. Massicci indimenticabili. Ai loro piedi, nell’andirivieni di auto sulla strada che collega la valle al passo Falzarego e più in là a quello di Valparola, c’è una baracca. Durante l’inverno giace sotto metri di neve. Nei mesi di luglio e agosto si anima e diventa casa. L’idea fu dell’ingegner Ugo Illing, personalità poliedrica dei Monti Pallidi: alpinista, progettista, studioso. Egli diede avvio, oltre quindici anni fa, a questa nuova macchina vivente, poi cedette il passo a Franco Fiorese, capogruppo di Cortina. Un sorriso, il suo, che si apre luminoso sulla barba incolta, quasi bianca.

    Un uomo pratico, diretto, per nulla lezioso. Al suo fianco l’ingegner Stefano Illing, figlio di Ugo, profondo conoscitore di questa porzione di paradiso qual è la valle d’Ampezzo. Della sua storia, dei fatti d’arme che la stravolsero. Insieme diedero vita al Comitato Cengia Martini, un modo per celebrare luoghi e soldati, protagonisti di quel passato indissolubilmente intrecciato al nostro presente. Un modo per non dimenticare. Il migliore. Ecco quindi che il destino arriva puntuale e combina l’incontro tra Franco Fiorese e Sergio Furlanetto, allora responsabile della Protezione civile dell’ANA di Treviso. Era il 1999. Così fu che gli alpini trevigiani, in particolare della porzione di terra a ovest del Piave, quelli della zona sacra del Montello, iniziarono a operare sul Lagazuoi.

    Il lavoro sembrava infinito. C’erano cumuli di sassi ad ostruire le gallerie, i ricoveri, le trincee. Muri a secco da ricostruire, passaggi da sgomberare. Scalette e baracche che andavano rimesse a nuovo. La collaborazione di Guido, gestore del rifugio Lagazuoi e dei ragazzi della funivia furono rilevanti. La sensibilità di Illing unita alle braccia degli alpini realizzarono un’opera straordinaria. E una volta terminato l’intervento sul Lagazuoi, fecero lo stesso sul Sass de Stria. Ora continuano, ogni estate, con i lavori di manutenzione. Forse inconsapevolmente, hanno costruito il più grande museo all’aperto sul fronte della Grande Guerra. In silenzio si sono succeduti oltre cinquecento volontari per 8.000 giornate di lavoro. Fino all’anno 2000 vi hanno preso parte anche gli alpini di leva e i militari tedeschi e austriaci. Poi la triste vicenda della sospensione della naja.

    Da allora è tutto sulle spalle degli uomini di Sergio Furlanetto, Primo capitano, in congedo… ma non troppo! Un najone che tiene unito un gruppo di penne nere meravigliose, inclini al mugugno, ma mai sfaccendate. Difficile descrivere l’allegria che si respira nella baracca sul far della sera, all’ora di cena. C’è complicità. Lo stanzone accanto alla cucina ospita una fila di letti a castello. Sopra ad ognuno è riposto un sacco a pelo, un cuscino e il cappello con la penna. Su alcuni in modo ordinato, su altri più approssimativo come a svelare l’indole dell’ospite che si accoccolerà ogni sera per sette giorni. Il tempo di un turno. Il sabato segna la fine di una squadra e la domenica l’inizio di quella successiva. Tempi scanditi dall’alzabandiera e dall’ammainabandiera e da un pranzo a cui partecipa sempre anche Franco e l’ingegner Illing, quando può.

    Chi ha lavorato tra le torri del Lagazuoi, sulla schiena curva del Sass de Stria ne parla con gli occhi lucidi. Racconta della squadra ‘Sacramento’ e della galleria ‘Furlanetto’, di quei fiori sotto la trincea che Illing si è raccomandato di conservare. Dei ragazzi delle scuole che ogni anno giungono lassù e che restano incantati dai racconti di Sergio e Andrea. Tracce vive che questi uomini, i nostri alpini, hanno scavato e che ora amano perdutamente. Ecco dunque che quella guerra lontana d’un secolo, oggi non è più morte né dolore. Gli uomini della Cengia Martini l’- hanno mutata in ricordo vivo.

    Ora lassù sul Sass de Stria, sul Lagazuoi, sulla cima del Col dei Bos, tra torri ardite e campanili di roccia, salgono i bimbi: la manina allungata che scompare in quella dei loro papà. Salgono i giovani delle scuole, gli appassionati di storia. Giungono ogni anno migliaia di viandanti delle terre alte. Perché “le montagne sarebbero un mucchio di sassi se non ci fosse l’uomo a dare loro vita”, diceva il maestro Walter Bonatti. E questo è ciò che hanno fatto gli uomini della Cengia Martini. Uomini d’oro.

    Mariolina Cattaneo