Come una volta

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    Basterebbero le dita delle sue mani, affusolate leggermente rivolte verso l’alto per tratteggiarne il carattere volitivo, eclettico. In continuo movimento. Francesco Maglia, Francesco quinto perché di avi che portavano il suo nome ve ne furono ben quattro, è un personaggio fuori dal comune. Capita di incontrarlo tra piazzale Cordusio e corso Magenta, centro di una Milano “straca” che via via va scomparendo, come non importasse a nessuno. Eppure nel suo racconto svelto, quasi concitato, con la voce roca che non concede pausa alla narrazione, non vi è alcuna malinconia. Semmai l’urgenza di raccontare l’intreccio d’una famiglia importante e numerosa che si identifica in un nome, divenuto un marchio: Maglia Francesco dal 1854.

     

    Protagonista l’ombrello. Ora nel laboratorio in fondo a via Ripamonti, lavorano Francesco quinto e Giorgio, il fratello più giovane. Quattro o cinque dipendenti e tutto intorno centinaia di ombrelli, variamente alloggiati, incartati, imballati, ancora sprovvisti di manico, da stirare o da marchiare. Appesi agli scaffali in ferro stanno i fogli d’ordine che sventolano ad ogni passaggio: nella casellina dedicata al destinatario, la maggior parte riporta indirizzi di città lontane dell’Inghilterra, della Francia, dell’Olanda e dei nostri vicini d’Austria. L’Italia che di quest’arte si è fatta bella in tutto il mondo, ora fa spallucce. «Perché nel nostro Paese si vende meno? Come possono ignorare certe eccellenze?» chiedo a Francesco. «Già, non è più come in passato. Le cose sono cambiate, adesso è tutto made in China. Noi cerchiamo di resistere».

    Francesco a gennaio e a giugno parte per l’Europa accompagnato da una vecchia, signorile valigia color mattone e da due borsoni cilindrici pieni di ombrelli: è il campionario dei Maglia che presenta con le novità dell’anno, ai suoi clienti. Una sorta di cavaliere mitteleuropeo che alla guida della sua auto macina chilometri in terra straniera e poi punta a nord e percorrendo il canale della Manica, approda a Londra. Alto quasi due metri, gli occhi che brillano. I mustacchi imperiali sulla barba che termina e si confonde nei capelli portati all’indietro. Elegantissimo.

    Così si è presentato un mercoledì di settembre negli uffici di via Marsala. Portava con sé due album, quello di famiglia e uno fotografico dello zio aggregato al battaglione Val d’Intelvi in Adamello nella Grande Guerra. Che immagini meravigliose: «Usatele come credete! »… generosa gente di Lombardia. Francesco Maglia, in famiglia Chino, ha gareggiato nella Vasaloppet, atleta in molte discipline, animato da una sconfinata ammirazione per la bellezza. “Il Signore degli ombrelli” come è stato definito su un popolare giornale di moda, ha fatto la naja negli alpini. A Monguelfo, caporalmaggiore nel battaglione Trento. Da allora non si perde un’Adunata.

    Il padre alpino, reduce della Campagna occidentale e poi schierato sul fronte grecoalbanese, uno zio Capitano prigioniero di guerra e lo splendido zio di mamma, medico e combattente in Abissinia. Tutti alpini. Un’aria che ha respirato da bambino e nella quale si è immerso completamente solo quando, dopo il congedo, è tornato nella sua Milano calcando il cappello dalla nappina rossa. La zona, il mestiere, la famiglia, sono stati il lasciapassare per rinsaldare amicizie legate a filo doppio con l’ANA milanese.

    Capitava così di ritrovarsi intorno alle sette di sera, in pasticceria Marchesi per un “cappuccino senza schiuma” dicitura che celava, e cela tuttora, un temutissimo aperitivo alcolico. Le battute in dialetto milanese, la nèbia e la Madunina. E gli amici di sempre, penne nere d’eccellenza: Renato Cepparo inventore della Stramilano, atleta e fondatore della Cinehollywood, Angelo Falliva il gioielliere di corso Magenta maestro nell’arte orafa e nel raccontare barzellette con quel suo accento piacentino scanzonato. E ancora il Peppino Prisco: «Lo incontrai una volta dalle parti di San Babila. Mi venne incontro con quel suo sorriso che tirava da una parte, tra il sornione e il beffardo». «‘Buonasera Avvocato come va?’ Lo salutai così allungandogli la mano. Si fermò e accigliato ammonì: ‘Devo aver sbagliato persona. L’ho scambiata per un alpino e tra alpini è d’obbligo darsi del tu’. Rimasi impalato, lo guardai. ‘Hai ragione… perdonami!’» ammisi io. «Scambiammo allora due parole e ci salutammo alla maniera alpina. Che bei tempi, che bella gente!».

    Forse l’Associazione alpini è davvero l’unica cosa che ha attraversato indenne il Novecento senza compromessi, senza venir meno alla tacita promessa di quel lontano 8 luglio. L’unica cosa vera che rimane, legata alla memoria di gente per bene, di gente generosa, di parola, soprattutto allegra. Se solo ci fosse caparbietà nel tutelare le tradizioni, i dialetti, l’unicità dell’artigianato italiano. Se solo ritrovassimo quella fierezza, quel moto d’orgoglio capace di trasformare questo Paese ormai privo di identità, nel posto migliore di sempre. Allora ritroveremmo nuovi Cepparo e Falliva e gli indimenticabili Prisco. Tutta quella bella gente di cui sentiamo in gola il nodo della nostalgia.

    Mariolina Cattaneo