Gli alpini… un bambino

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    Per i solutori di enigmistica, si chiama sciarada. Ossia si tratta di partire da una parola strana, che in realtà ne contiene due o più, mescolate insieme come si fa con le carte di un mazzo. Il gioco consiste nello scomporre questa parola originale per vedere da quali altre essa è composta. Chissà se Adam El Haddad, bambino di sette anni, di Castellafiume nella Marsica, nato in Abruzzo ma figlio di genitori marocchini, sa di aver fatto una sciarada. Ci vorrà del tempo per spiegargli come i grandi a volte rendono complicate le cose più semplici.

    A lui, così come nelle 137 scuole della Regione in cui si è presentata la prossima Adunata, parlando di quegli uomini con la penna sul cappello, avevano detto che un alpino era tale dalla testa ai piedi. Poi gli avevano raccontato delle medaglie che si era guadagnato morendo per la Patria, degli scarponi che indossava per scalare le montagne, dei suoi piedi sempre in movimento, da uomo del fare quale è… insomma tutte quelle cose che si dicono di noi da quando siamo apparsi sulla terra. Adam El Haddad ha ascoltato, gli occhi sgranati e il cuore a pieni giri, poi ha preso un foglio bianco, la scatola di colori pastello, e lì, sopra la tela della sua innocenza ha proiettato l’eco delle emozioni che gli passavano dentro.

    Un cappello verde con tanto di aquila, tre medaglie d’oro appese come un trofeo, una penna svettante. Nessun volto, né un occhio, un orecchio, una bocca o un sopracciglio. Niente di tutto questo. Il cappello per dire il tutto, come identità complessiva, la personificazione di chi lo porta, come un organismo pulsante dentro il quale respira la vita, si celano i pensieri, muovono le scelte e si custodiscono le memorie. Una sorta di sacrario, dove entrare senza scarpe per non sporcare e dove sostare, coscienti delle proprie responsabilità. Un posto dove non c’è posto per ladri, scansafatiche, perditempo, ubriaconi e opportunisti. Soprattutto per chi non ha voglia di fare. Ci ha pensato Adam El Haddad a farcelo sapere, mettendo ai piedi di questo cappello, divenuto metafora esistenziale, due solidi scarponi in marcia. Simbolo di passione per la montagna, dove non si va con gli infradito o con il mocassino borghese, da via dello struscio, ma simbolo anche di una disponibilità, che trova sempre il tempo e il modo per mettersi in marcia e dire con prontezza: presente! “Alpiedino”.

    Questo è il nome-sciarada che il piccolo Adam ha voluto dare alla sua creatura. Un insieme di alpino e piedi che si muovono all’unisono, mettendo insieme cervello e volontà, identità e passione. E c’è voluto lo stupore della sua innocente creatività, per mettere sulla tavolozza i colori che sanno di cuore. Se oggi dedico queste righe ad un bambino di sette anni, che ha capito degli alpini più di quanto potessimo immaginare, non è solo per riconoscere un premio alla fantasia creativa di un piccolo. È soprattutto per ricordarci che trasmettere la memoria alpina alle nuove generazioni è possibile. Ho tenuto un incontro a quattrocento ragazzi delle elementari nel teatro centrale di L’Aquila.

    Ho parlato loro della nostra storia, canticchiando e commentando i testi delle nostre cante. L’attenzione, dopo due ore, era impressionante. Il silenzio così denso, da risultare palpabile. Era un travaso di pensieri e di emozioni, accolte senza il filtro dei pregiudizi e dei condizionamenti umani e vissute come la sorpresa davanti ad un film d’azione di cui mai nessuno aveva parlato loro. Un metodo da tenere presente per tramandare la nostra storia, magari lontano dalle storie ingessate, fatte spesso di resoconti algebrici, o di lugubre mestizia. Dagli alpini e dalla loro storia sgorga tanta gioiosa vitalità. Parola di Adam El Haddad.

    Bruno Fasani