Il mondo alla rovescia

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    La guerra si insinua nell’esistenza di ognuno ancor prima che imperversi. Essa coinvolge uomini e donne, vecchi e bambini, senza differenze. Il 24 maggio 1915 la notizia non colse nessuno impreparato, i giovani e i richiamati si apprestavano a lasciare tutto, indugiavano sui ricordi, restavano fermi, immobili davanti alla finestra di casa nel tentativo di bere fino all’ultimo sorso l’orizzonte che avevano guardato ogni mattina, i profili delle montagne che conoscevano a memoria, il cielo sopra la loro casa. Le donne, fossero mamme, spose, sorelle o fidanzate, vivevano l’imminente separazione con riserbo, sebbene nel cuore portassero un peso enorme, cercavano di nascondere la preoccupazione mostrandosi forti.

     

    Non era facile per chi partiva né per chi restava. Non era facile per nessuno. Una volta al fronte, i paesi si svuotarono e così i campi, le fabbriche, i boschi. Gli attrezzi consunti giacevano come abbandonati, senza vita. Il dolore per la partenza dei giovani di leva e dei richiamati si rifletteva in una società orfana delle braccia che sino a quel momento avevano faticato. Ma accadde qualcosa di inaspettato, qualcosa di silenzioso eppure potentissimo capace di propagarsi come un’epidemia in tutta l’Italia e oltre confine.

    Mentre al fronte soldati di ogni età combattevano per la Patria, le donne rimaste a casa compresero che occorreva continuare a vivere, riempire quell’attesa con l’innato pragmatismo femminile che diviene fare. Un muto colloquio d’intenti si trasformò in una mobilitazione vera e propria: per impedire alla macchina della produttività un inesorabile collasso, le donne fino ad allora relegate a un ruolo domestico, si trasformarono in operaie, contadine, persino autiste di tram. Lungo la fascia alpina, nei piccoli centri di montagna, andavano per legna, si occupavano delle bestie e dei fazzoletti di terra coltivata a segale e patate. Ma non solo.

    Sovente si vedevano grandi ceste colme di pane salire lungo i crinali montuosi del Cadore, poggiate sulle spalle di giovani ragazze capaci di giungere fino nei pressi delle trincee. E così in Carnia. Le mani rotte dalle fatiche si incrociavano all’altezza delle reni per sostenere un poco il peso di quello ‘zaino’ di fascine intrecciate: fino a quaranta chili di cartucce, indumenti e viveri per i soldati delle prime linee.

    Le salmerie non bastavano a trasportare i rifornimenti così, su pressante invito dei Comandi Militari, le giovani donne di Paluzza, Casteons, Cercivento, Paularo, Sutrio, di tutti quei piccoli centri montani dell’Alta Valle du But, non esitarono ad offrire il proprio contributo alla guerra. Ognuno come poteva. Le nobildonne dell’Italia sabauda diedero vita a numerose associazioni con l’unico fine di aiutare i soldati al fronte. Un giorno dopo l’altro, gli aghi incrociavano abilmente in velocità le matasse di lana per realizzare calze, passa montagna, pancere e casacche, sciarpe e cappelli. Furono redatti manuali con le norme di lavorazione per gli indumenti a maglia.

    Partirono per il fronte migliaia di pacchi che alleviarono il freddo sferzante dell’alta montagna. Altre signore entrarono nel vivo della guerra come crocerossine, lavorando con alacrità negli ospedali, offrendo assistenza ai feriti, ai malati, alle mogli dei combattenti, ai figlioli dei militari lontani. Ma non solo. Persino le italiane all’estero si adoperarono per raccogliere fondi destinati ai soldati, dall’Inghilterra all’Australia, con iniziative originali e intraprendenti.

    Nei centri più importanti, vennero istituiti posti di ristoro collocati nelle stazioni di transito dei soldati: un fermento vivo e mai stanco offriva conforto prima della partenza per il fronte. A Milano tra i tanti comitati, nacque quello dello scaldarancio: un piccolo oggetto che d’acchito pareva un giocattolo, capace tuttavia di scaldare una minestra gelata, d’intiepidire una pietanza frugale consumata in trincea. La produzione da domestica divenne presto industriale. Centinaia di donne si riunivano la sera, sbrigate le faccende di casa, in fabbriche o abitazioni, e arrotolavano giornali vecchi racimolati qua e là.

    I rotolini venivano allora tagliati in piccoli cilindretti, poi paraffinati e lasciati seccare. Tre erano sufficienti per scaldare il contenuto di una gavetta. Ne vennero spediti mezzo milione ogni mese per ordine del Comando Militare senza contare i pacchetti privati e le richieste personali. Nel complesso quasi quattro milioni di scaldarancio raggiunsero il fronte. Il fare delle mani gentili fu immenso e non si limitò alle cose; milioni di lettere e di cartoline si rincorrevano, si incontravano e giungevano a destinazione raccontando con dolce compostezza, la vita di lassù e quella di quaggiù. Riempiendo quell’esistenza che, nonostante la guerra, continuava ad essere.

    Mogli, madri, sorelle, fidanzate, zie e madrine di guerra mandavano notizie, rapivano il soldato dalla realtà per qualche istante di conforto. E dal fronte giungevano copiosi i ringraziamenti indirizzati a quell’universo garbato che la contingenza del conflitto aveva spinto verso una libertà nuova. Il dramma della guerra mostrò le più belle virtù femminili. Oltre 9 milioni di donne offrirono tre anni della loro vita alla Patria, realizzando l’impossibile. Di loro resta un ricordo sbiadito, lontano imbevuto di tutte le gioie e di tutte le malinconie vissute. Una piccola scheggia che brilla nella storia del mondo.

    Mariolina Cattaneo