Le porte aperte

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    «La giovinezza è un rimpianto di chi non l’ha più. Una speranza, per chi vede nelle nuove generazione il futuro del Paese. Ma la giovinezza è anche una malattia da cui si guarisce presto». La battuta, che non avrei più dimenticato, era di un vecchio signore, che me la ripeteva spesso quando da poco avevo cominciato a portare i pantaloni lunghi. Sapevo che mi voleva bene e questo giustificava l’ottimismo verso i giovani.

     

    Ma c’era anche quella coda realistica sulla giovinezza come malattia, che mi riportava con i piedi a terra, obbligandomi a guardare alla saggezza di chi da quella malattia era da tempo guarito. I due giorni dedicati al Cisa, convegno itinerante della stampa alpina che abbiamo tenuto il mese scorso ospiti degli amici di Belluno, sono probabilmente l’icona più efficace per incarnare questa scheggia di saggezza.

    Al tavolo dei relatori avevamo invitato quattro giovani delle scuole superiori. Sono venuti a raccontarci, loro che alpini non lo sono, come pensano di noi e cosa ci chiedono. Lo hanno fatto con una competenza e una profondità di ragionamenti da lasciarci stupiti. Un momento di aria pura, una porta spalancata alla brezza di un pensiero carico di futuro.

    Lo stupore è stato anche quello di capire che oggi le nuove generazioni, a dispetto dei tanti lamenti in circolazione, hanno un’ampiezza di vedute, che forse era estranea alla maggiore parte di noi, quando avevamo la loro anagrafe. Certamente noi eravamo più ruspanti e più generosamente obbedienti, ma sicuramente più naïf e mentalmente meno aperti. Ebbene, la stima per i nostri valori, quelli per i quali siamo ogni giorno a interrogarci su come trasmetterli, temendo un finale della nostra Associazione senza prospettive per il domani, prendeva corpo nelle parole di quattro giovani, venuti a raccontarci la loro ammirazione verso gli alpini.

    A chi ci suggeriva di ascoltare anche la voce di altri giovani meno… profetici, vorremmo ricordare quanto sia importante evitare due estremi. Quello di un pessimismo sconsolato che ci fa guardare alle nuove generazioni come uomini senza valori e senza meta, ma anche l’ottimismo ingenuo di chi vedendo un bocciolo già annuncia la primavera.

    Non basta un mandorlo in fiore per suonare le campane, ma l’esperienza di Belluno è qui a raccontarci che il fascino della nostra storia trova eco e disponibilità nella coscienza di chi deve prendere in mano il domani del nostro Paese. Un tema sul quale l’Ana si sta muovendo da tempo, per interrogarsi sul proprio futuro, che prima d’essere una questione di numeri, è una questione di cultura e di valori. È possibile affascinare e contaminare i giovani d’oggi con la storia di cui siamo depositari?

    È chiedere troppo invocando il ripristino del servizio militare per quanti volessero dedicare un po’ di tempo della loro vita per il bene comune? Domande retoriche, dirà qualcuno, prevedendo l’ovvietà della risposta. Ma sappiamo che non per tutti questo sentire è così scontato. Sentiamo ancora l’eco del vietato vietare, cresciuto insieme ad un concetto di libertà che si confondeva con l’anarchia, insieme al mito del buon selvaggio, quello di genitori convinti che il valore delle persone si costruisca intorno all’idea di benessere economico.

    Teoremi che hanno messo in piedi l’idea di una gioventù libera e gaudente, gioiosamente vorace alla greppia dei beni procurati dai predecessori. A Belluno, quattro giovani, capaci di razionale onestà, ci hanno detto che la nostra visione della società non è retorica nostalgica, ma condizione di civiltà e garanzia di futuro. Come intraprendere insieme questo viaggio è tutto da inventare. Ma è consolante sapere che esso è possibile e, soprattutto, che non siamo soli.

    Bruno Fasani