Tutto per la Patria

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    Sembrava essere il pranzo d’un giorno qualunque. Ma c’era tra i commensali un cuore che batteva più degli altri, un cuore in attesa di una rivelazione che avrebbe per sempre mutato la vita dell’intera famiglia Locatelli. “Mi sono iscritto tra i volontari alpini. Domani parto per Morbegno”, disse Carlo. Il padre restò attonito, in silenzio.

    La madre invece, prontamente rispose: “Bravo, fai bene. È il tuo dovere. Va e ritorna con tante medaglie. È giusto e bello che tu senta la voce della nostra Patria. Bravo. Fatti onore…”. Carlo era un ragazzo con le spalle quadre e i capelli folti e scuri. Lo sguardo serio d’un uomo plasmato dalle severità della montagna e dagli studi tecnici, nonostante la sua spiccata vena artistica che aveva dovuto accantonare per necessità. Simile per attitudini era anche Antonio, il fratello più giovane. Erano cresciuti con la stessa educazione che non concede sconti, che insegna a sapersi destreggiare nelle innumerevoli prove della vita.

    Il padre Samuele li aveva formati alla disciplina, al culto degli ideali di Patria, assecondando con intelligenza le loro inclinazioni. Durante le vacanze estive i due giovani simili nel cuore e nell’aspetto, partivano per alcuni giorni con viveri e tenda alla volta di qualche località delle Alpi ed erano scalate famose a questa o a quella cima, giorni e notti trascorsi sui ghiacciai. Così divennero forti e capaci e si ritrovarono al fronte, l’uno nelle compagnie volontari del Morbegno, 5° Alpini, l’altro pilota nel battaglione squadriglie dell’Aviazione.

    Il 25 maggio 1915 Carlo era alla stazione di Bergamo. Quante le penne che spuntavano sopra le teste borghesi e si muovevano di qua e di là, fino ad indugiare, abbassandosi un poco, nell’ultimo abbraccio a genitori e amici. Timori e nostalgie s’erano travestiti di chiacchiere e raccomandazioni nel tentativo invano di ricacciare indietro l’algido pensiero della guerra. Carlo salì sul vagone, si affacciò al finestrino e con un fazzoletto stretto nel pugno della mano destra salutò i suoi: si guardavano tutti e tre immobili sforzandosi di fissare per sempre quell’immagine nella mente. Quando il treno scomparve alla vista, la madre Anna disse con gli occhi persi nell’orizzonte che da qualche attimo gli aveva rubato il figlio: “Un presentimento mi dice che il nostro Carlo morirà in guerra!”. Rispose d’istinto il marito, “Tornano in tanti. Perché non ritornerà anche lui? Non ti crucciare. Lo rivedremo con le medaglie sul petto”. Ma i cuori delle madri non s’ingannano.

    Gli scarponi chiodati di Carlo percorsero infinite vie lungo la zona dell’Ortler Cevedale. Si consumarono sulle rocce della Cresta di Villacorna, al Passo dell’Ablès, sul San Matteo e sul monte Tresero. Il suo corpo curato dagli agi d’una famiglia modesta ma a cui non mancava nulla, conobbe i disagi della vita in baracca. Lo racconta in una lettera all’amica tanto cara: “Signorina, sono tornato quassù oggi pieno di pidocchi, ma sano come una pesca. Non sono però i pidocchi che voi conoscete, son di un’altra specie, grossi come grani di riso e rigati di nero che si muovono pesantemente, ne ho preso alcuni che avevano persino le ali! A voi farà schifo il pensare che io sono così… abituato, a me non ne importa niente e li guardo con indifferenza. Ieri a momenti resto sotto la valanga, per due volte di seguito mi è partita di sotto i piedi con enorme fragore e il mio sangue freddo ha salvato me e i miei compagni. Eravamo partiti per una ricognizione quando scorgemmo una pattuglia nemica a ottocento metri da noi. Ci mettemmo in posizione ed iniziammo il fuoco a nostra volta, alle prime scariche i nemici dimostrarono un forte panico, indi si diedero a precipitosa fuga tanto che credo stiano fuggendo ancora adesso. Antonio mi ha scritto e mi ha mandato tre sue fotografie. Presto dovrò venire a casa in licenza per un dieci o quindici giorni. Io sto come vi ho già detto ottimamente, soltanto sono un poco sporco, pensate che non mi lavo dal 22 ottobre; domani andrò ai bagni di Bormio a fare una pulizia radicale, mi libererò così della sporcizia e dai pidocchi. Santa Caterina, 4 dicembre 1915”.

    Carlo visse tre anni di guerra sulle più alte quote, fu di sostegno ai suoi alpini e di supporto ai Comandanti per via di quella sua ben nota conoscenza della montagna che dimostrava in ogni occasione. Rimase sempre in contatto con il fratello Antonio, l’uno al piano volava con gli sci sulle nevi ampie e ondulate come dune, l’altro sfrecciava nel cielo, tagliando l’aria e colpendo le postazioni nemiche. Si salutavano sempre con il pensiero e quando il ritmo incalzante della guerra concedeva loro il tempo, si scrivevano.

    “Caro Antonio, mi chiedi qualche particolare sulle valanghe. Io sino ad oggi conoscevo soprattutto la valanga di neve marcia che scende come una cascata, come un fiume, qui invece ho visto molte valanghe di neve farinosa che scendono lungo le pareti come nubi enormi e con un fracasso indiavolato e che mandano correnti d’aria fortissime, tanto da mandare un uomo a gambe levate come fosse un fuscello di paglia. Io infatti la prima volta che fui investito, venni soffiato via, rimasi stordito e rimbecillito, sepolto poi. La prima volta che ci restai sotto ne scampai due e incappai nella terza. La seconda volta mi trovavo in una galleria di neve che serve da riparo, ma venne un valangone di neve marcia, pesante che sfondò la galleria e noi rimanemmo imprigionati in un punto che aveva resistito, sotto metri e metri di neve. Soltanto sette ore dopo potemmo uscire a riveder le stelle. È straordinaria e orribile l’impressione che hai là sotto: sei stretto come in una morsa, compresso in tutte le parti del corpo, senza respiro e quello che è più orribile è che puoi ragionare e pensare cha hai davanti la certezza di morire. Alcuni giorni fa ne cadde una che schiacciò e sotterrò una baita dove si trovavano dodici alpini. Ne furono estratti vivi sei, ma tutti feriti, e sei schiacciati e appiattiti come se ci fosse passata sopra una pressatrice. Cose dell’altro mondo che a vederle fanno rabbrividire, ma alle quali si finisce per abituarsi. Passo Ortler, 6 maggio 1916”.

    La guerra è strazio per la morte che le gravita attorno, per l’incertezza dell’ora prossima. Cosa accadrà? nessuno può immaginarlo. Tuttavia in mezzo ai tristi fotogrammi seppiati appaiono a tratti scene dai colori accesi, quasi accecanti: l’arrivo della posta all’imbrunire, quelle cartoline colorate, quelle lettere adorne di parole lette e rilette e che odoravano di casa. E i fiori inconsapevoli e cocciuti che spuntano dai canaloni detritici ai piedi della montagna. E gli occhi pensierosi e senza sonno che si incrociano nel buio delle baracche e silenziosi si danno conforto. Nelle ore di solitudine si pensava soprattutto a questi momenti, ai propri cari, agli amici. Allo scorcio che si vedeva dalla finestra di casa e che mutava di colore con il succedersi delle stagioni. Alla scuola, alla messa domenicale. Era così per tutti, anche per Carlo. Un alpino speciale eppure allo stesso tempo un alpino come ve ne furono tanti. Anche attraverso la sua figura celebreremo il centenario della Grande Guerra. In cammino, percorrendo crinali e sentieri, o attraverso le parole di un diario.

    Parole come queste: “Al di fuori ero sempre quello di una volta. Ma dentro che crollo, che devastazione, come ho pianto! E quando abbiamo dovuto abbandonare il Tagliamento, quando ho sentito la enorme irreparabile rovina, quando ho sentito minacciata la mia casa, allora l’unico pensiero che abbia potuto consolarmi un poco è stato questo: prima che essi arrivino là io sarò morto. A questo punto ero ridotto. Poi venne il miracolo del Piave, quattro gatti affamati e sfiniti hanno resistito, hanno fermato il nemico. La resistenza del Piave è la più grandiosa pagina della nostra storia. Da allora ho sentito ancora l’orgoglio di essere italiano, ho sentito rinascere la fede, ho sentito che non ero più solo a credere, a sperare”. Ascoltiamo e meditiamo perché ora tocca a noi.

    Mariolina Cattaneo