Un uomo, una preghiera

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    Dato che contro gli alpini c’è poco da dire, essendo essi più attenti ai valori che ai colori, ecco che si prende di mira la loro Preghiera, magari senza averla letta o quanto meno compresa. E solo perché parla di armi. Occorre innanzi tutto precisare che gli alpini fanno parte di un’Associazione d’Arma, avendo avuto a che fare con le armi durante il servizio militare. D’altra parte non sono le armi, ma è il loro uso che può essere condannabile; infatti, in certi frangenti possono essere utili e pure necessarie, a meno che si vogliano lasciare i deboli, siano singoli o gruppi, alla mercè dei prepotenti e dei delinquenti. Si chiede inoltre che queste siano “forti” non contro tutto o contro tutti, ma solo per difendersi da chi “minacci la nostra Patria, la nostra bandiera, la nostra millenaria civiltà cristiana”.

    L’attuale testo è stato confermato con apposita delibera dal Consiglio Direttivo Nazionale dell’Ana, quando il Comando Truppe Alpine decise di modificare quello da recitare dai soldati in armi, perciò così deve essere fino a che gli organi statutari non decideranno diversamente. Questo è un dovere per gli associati, mentre non è un obbligo associarsi all’Ana se non si condividono i valori e gli indirizzi. Se vogliamo poi entrare nel significato delle parole, considerato che sono le “armi morali” a rendere determinati gli uomini, più che le bocche da fuoco, quel “armi” ci sta in ogni modo benissimo. In altra parte la Preghiera recita: “armati come siamo di fede e di amore”. E il “rendici forti”, della versione edulcorata dall’Esercito, esprime, in sostanza, ancora lo stesso concetto.

    Quello che lascia maggiormente esterrefatti, nella versione del 1985 dell’Ordinariato militare, è l’abolizione delle parole “la nostra millenaria civiltà cristiana”. Non si tratta di un mero aspetto religioso, poiché tale “millenaria civiltà cristiana” è un patrimonio, morale, civile, culturale, artistico che fa unica l’Italia, e va difeso, indipendentemente dall’essere cattolici praticanti o meno. È un fatto di civiltà. La recita poi della preghiera è una manifestazione del proprio credo, che si basa sul millenario insegnamento cristiano, altrimenti non ci sarebbe motivo di invocare “Dio Onnipotente” e la “Madre di Dio”. Forse anche per questi motivi nel 2007 le parole sono state reinserite dall’Ordinario militare mons. Vincenzo Pelvi.

    Alcuni giornalisti, non accontentandosi di questo, ultimamente hanno preso di mira anche Gennaro Sora, autore della prima versione scritta della “Preghiera dell’Alpino”, chiedendosi strumentalmente: «E se l’autore delle leggendaria ‘Preghiera dell’Alpino’ avesse compiuto orrendi crimini di guerra sterminando coi gas tossici centinaia di vecchi, donne e bambini?». E via di questo passo con affermazioni campate in aria, accusando Sora di aver comandato l’uso di iprite in Etiopia durante la battaglia di Cajà Zerét (1939).

    Questo, comunque, è un falso scopo, poiché l’obiettivo è sempre la Preghiera. Ma anche per questo è doveroso evidenziare alcuni fatti. Gennaro Sora, conosciuto, a ragione, come eroico e leggendario alpino nella Grande Guerra, sulle nevi dell’Adamello, si distinse per eccezionali meriti militari e umani guadagnando quattro Medaglie al Valore, tre d’argento e una di bronzo, e la promozione al grado di capitano. Nel 1928 fu scelto per le sue capacità operative e fisiche come comandante della pattuglia alpina aggregata alla spedizione del dirigibile Italia al Polo Nord, compiendo poi una leggendaria impresa: marciò per 25 giorni sul pack, alla ricerca dei naufraghi.

    Ancora oggi Sora è ricordato con ammirazione nei Paesi nordici. Ma il suo fare schietto lo portò a non essere sempre allineato al volere del potere di allora. Tant’è che solo nel 1934, dopo cinque anni d’attesa, fu promosso al grado di maggiore e assunse il comando del battaglione Edolo. Alcuni anni dopo, nel 1937, fu mandato in Africa Orientale, dove assunse il comando del battaglione speciale alpini Uork Amba, impegnato a presidiare i luoghi dove gli italiani stavano costruendo strade, ferrovie – tuttora esistenti – e fortificazioni. Questo gli permise di essere a contatto diretto con la popolazione locale e sin dall’inizio Sora non condivise in alcun modo la politica repressiva instaurata dal maresciallo Graziani.

    Alcune sue considerazioni in proposito giunsero alle orecchie dello stesso Viceré che ordinò l’immediato rimpatrio di Sora. Informato del caso, intervenne un suo diretto superiore che propose la revoca dell’umiliante (per un militare) ordine di rimpatrio, sostituendolo con un trasferimento ad un battaglione coloniale. Sora, a malincuore, dovette lasciare i suoi alpini del Uork Amba e assunse il comando del XX battaglione coloniale, formato da soldati indigeni. Per quanto riguarda i suoi rapporti con le popolazioni locali, basti una frase tratta da una sua lettera alla madre, scritto confidenziale quindi sincero: «Chi riesce a scoprire, sotto la pelle nera, un cuore ed un sentimento ha in cambio molte soddisfazioni e la sicurezza contro ogni pericolo. Sono in fondo degli uomini diversi da noi per il solo fatto che non conoscono la civiltà europea, il che non è sempre un danno». Ma veniamo alla battaglia di Cajà Zerét.

    Le grotte della zona erano diventate un centro strategico e di raccolta di forze ribelli di quel territorio e punto di partenza per gli attacchi contro colonne di rifornimenti e presidi italiani isolati. Nelle vaste cavità erano asserragliati numerosi abissini, armati di mitragliatrici, di moderni fucili Mauser e Lebel e accompagnati, come da loro usanza, da donne, bambini e bestiame. Occorsero dieci giorni di lotta e qualche ora di un unico attacco chimico (il 9 aprile 1939) per avere ragione dei forti soldati abissini. La pattuglia che usò il gas era formata da soldati della Divisione granatieri di Savoia, reparto speciale a disposizione del governo generale – vale a dire del Vicerè principe Amedeo di Savoia-Aosta, succeduto a Graziani, e del Capo di Stato Maggiore, gen. Claudio Trezzani, diventato poi Capo di Stato Maggiore generale dal 1945 – e dipendente operativamente dal Comando superiore, cioè dal generale Ugo Cavallero e dal colonnello Orlando Lorenzini.

    Tale pattuglia fu inviata dallo Stato Maggiore di Addis Abeba con l’ordine e il compito di usare armi chimiche. Tutto si svolse agli ordini del colonnello Lorenzini che poi constatò che in pratica l’azione con l’iprite non ebbe conseguenze, come risulta da un suo telegramma del 10 aprile dove si lamentava che «aggressivi non habent fatto risultato positivo causa difficoltà immissione interno caverna». Né furono trucidati donne, anziani e bambini poiché tutti furono lasciati andare liberi. Il quadro finale della battaglia è stato indubbiamente molto sanguinoso, ma nulla a che vedere con un massacro ingiustificato.

    Perciò, per quanto riguarda l’accusa rivoltagli, c’è solo da ribadire che Gennaro Sora in Etiopia non aveva il potere di disporre l’uso di gas tossici e tanto meno «ordinò di usare l’iprite assassina ». Quello che successe in quegli anni, è avvenuto in un clima politico e in un contesto storico molto diversi e distanti dalla situazione attuale e i fatti vanno analizzati tenendo conto di tutto ciò. Con questo non si vogliono giustificare le guerre, il colonialismo, né i regimi di ieri e di oggi ma ripristinare la verità e confermare l’onorabilità di Gennaro Sora e dei tanti soldati italiani che fecero semplicemente il loro dovere.

    Luigi Furia