Venceslao dai piedi dolci

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    Era un giorno qualunque di un mese qualunque, in guerra a quota 3.000. Gli alpini che vivevano lassù erano veneti, lombardi e friulani, provenivano dai paesi sparsi lungo tutto l’arco alpino. Poi, come per ogni buona regola, c’erano le eccezioni. Ed ecco dunque Venceslao Patriarca, pastore sulle montagne d’Abruzzo e chiamato a fare l’alpino sulle Dolomiti: «Ma ie n’ saccie camminà co li scarpe » aveva detto al capitano nel giorno della visita al Distretto. «E perché mai?» «Perché tenghe li piede dolge e delicate!».

     

    «E allora, pazienza figliolo!» aveva ribattuto laconico l’ufficiale «Ti daranno scarpe più grandi. Abile e arruolato!». Il rumore del timbro sulla cartolina rosa aveva chiuso la questione. Patriarca era d’indole buona e non se la prese per nulla. Giunse al fronte e risultò subito caro agli alpini per via dei suoi modi goffi e del suo ragionar ingenuo. Aveva i capelli color del carbone, folti come un cespuglio che cingevano un viso paffuto, zuppo d’allegria. Alla prima marcia, calzò senza mugugni gli scarponi chiodati; si destreggiava a fatica tra guglie e spuntoni aguzzi, in mezzo a sassi e canaloni di ghiaia sembrava camminasse sui carboni ardenti. Quanto avrebbero resistito i suoi piedi dolci? Le corvée legna, le ricognizioni frequenti spensero in fretta il sorriso di Venceslao eppure mai un lamento, solo qualche sbuffo tra i denti. «Cos’hai Patriarca? » gli domandava il comandante del plotone, «Tante male a li piede, eccellenza! A lu paese mì, ni porte maie le scarpe…».

    L’ufficiale faceva spallucce, la naja è naja e incontra di rado i gusti personali. Così un giorno il caporale comandante la sua squadra gli disse che bisognava portare il rancio ai quattro alpini di vedetta sulla cresta sopra i baraccamenti e che, seguendo il canalone, in dieci minuti sarebbe stato in cima. Le gavette non avevano coperchio e Venceslao si incamminò con la sua andatura ciondolante, schivando le impervietà del terreno. Dopo poco si trovò a un bivio: da un lato una via tempestata di sassi aguzzi e traballanti, dall’altro una salita ripida, ma con zolle verdi e senza particolari accidenti. Quando fu quasi in cima, il suo viso rubicondo si trovò di fronte una parete liscia, che fare? «Vuie pruvà!» disse fra sé Venceslao.

    Prese una corda e legò tra loro le quattro gavette colme di minestra e con qualche pezzo di carne, se le infilò a tracolla e sfidò il muro di roccia calcarea scarso di appigli. Superate con sorprendente destrezza mille difficoltà, s’affacciò alla cresta finale e sentì delle voci: «A è li cumpagne – mormorò – ma vattenne chiacchierano in tedesco! Ah pe’ la Coccia di Sante Dunate, sono li nemiche! ». Era proprio il nemico: sei o sette austriaci, girati di spalle, stavano lì seduti intenti a spidocchiarsi. Allora Venceslao imbracciò il fucile e intimò loro la resa. Le vedette nemiche alzarono le mani, senza neppure voltarsi. Con un urlo il prode pastore d’Abruzzo chiamò i suoi appostati sulla cengia sottostante che, in pochi istanti furono lì. «V’aie purtate lu rance – disse loro – sta qua sotto. Mi s’ha sprecate n’acì di minestra, ma la carne ci arstà. Ie porto jò li prigiuniere. Jamme, march!». E per questa azione, Venceslao Patriarca, si guadagnò la sua prima Medaglia d’Argento.

    La montagna capace di addomesticare persino i caratteri più selvatici e reticenti, aveva compiuto il suo miracolo… fugace! Venceslao Patriarca ritornato ai pascoli d’Abruzzo ricominciò a girare scalzo e beato, su e giù per i prati e i boschi che guardano al Gran Sasso. Nel cuore il ricordo dei compagni e d’una guerra scomoda; nel cassetto di casa, una medaglia d’argento che oltre a testimoniare un’impresa inattesa tuttavia ardita, premiava la caparbietà di Venceslao e il suo ammaestrato senso del dovere.

    Mariolina Cattaneo