Zona franca

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    Rubrica aperta ai lettori.

    IL TERREMOTO IN ABRUZZO

    L’ennesimo evento disastroso ha coinvolto e sconvolto il Belpaese (bello ma fragile). Ancora case crollate e monumenti distrutti, ma soprattutto vittime, dolore e lacrime. E ancora gli alpini in prima linea sul fronte della solidarietà: organizzati, efficienti, tempestivi. Rivedo le esperienze antiche e recenti (Magnano in Riviera e Venzone, Muro Lucano, Pescopagano e Bella, Armenia e Foligno, ecc.), per concludere che la nostra Protezione civile ne ha fatta di strada da quel lontano 1976 del Friuli, soprattutto nei tempi di mobilitazione e di intervento. In Abruzzo, i nostri erano operativi già nella prima giornata del sisma. Ora è incominciata la fase due, quella del recupero e della ricostruzione. Anche questa una corsa contro il tempo, nella quale gli alpini sono chiamati ad una mobilitazione generale, sia nel settore operativo (riservato in particolare ai qualificati e specializzati), sia nel settore economico, con la raccolta di fondi a cura dei gruppi e delle sezioni. La sede nazionale ha lanciato un primo segnale: le risorse verranno gestite direttamente dall’ANA per uno o più interventi diretti di ampio respiro (sul modello a Rossosch, tanto per intenderci). È opinione condivisa che questo sia il modo migliore per onorare, nella stagione della pace, quella penna che i nostri nonni, i nostri padri, i nostri fratelli maggiori, nella stagione della guerra, hanno saputo onorare sul Grappa, sull’Ortigara, sui monti della Grecia e sulle nevi della Russia. Ma è anche una misura precauzionale, una specie di apertura di credito. Non possiamo infatti dimenticare che una consistente parte del nostro territorio è stato incluso, in tempi relativamente recenti, tra quelli a rischio sismico. Eccesso di prudenza, o folgorazione scientifica a scoppio ritardato?Nel dubbio, oltre alla opportuna adozione di interventi sul patrimonio edilizio di necessità e povertà realizzato nei nostri paesi nei primi decenni del dopoguerra, è quanto mai importante il consolidamento di questa straordinaria catena di solidarietà collettiva e diffusa che, anche e soprattutto in questa triste occasione, ha sorpreso e meravigliato le più sofisticate e referenziate organizzazioni internazionali. Se molto probabilmente non siamo i primi nel prima , vale a dire nella previsione e prevenzione, quasi sicuramente siamo i primi nel dopo , cioè nell’aiuto e nella condivisione solidale. L’Abruzzo ferito attende conferme.

    Bortolo Busnardo

    NONNISMO AL CONTRARIO

    A Lequio Tanaro un gruppetto di alpini della mitica ‘106 Mortai Pesanti’ del battaglione Saluzzo, di stanza a borgo San Dalmazzo negli anni 1975/1977, si è ritrovato con il proprio comandante, Domenico Agostini, allora capitano, oggi colonnello in pensione. Inutile sottolineare il clima di allegria, solito e classico degli incontri tra alpini, il susseguirsi dei richiami alla memoria di quei particolari fatti di vita militare in caserma e fuori, ai campi, alla ‘scuola tiri’, ecc. ecc.. A me venne un ricordo particolare: eravamo ai primi di novembre 1976, finito il periodo presso il BAR San Rocco Castagnaretta, eravamo scesi dai CM che ci avevano trasferito alla Caserma Mario Fiore. Ci trovammo, più o meno allineati, nel cortile della nuova caserma, piantoni dei nostri bagagli, dardeggiando con gli occhi a destra e a manca per individuare quale dei ‘vecchi che si avvicinavano come lupi al gregge di agnelli ‘figli’, avesse lo sguardo più sadico e ci dedicasse le sue ‘attenzioni’. I caporali istruttori si erano divertiti a ‘metterci in guardia’ dagli scherzi dei veci del battaglione. Passati pochi minuti avevamo già assistito all’immolazione, sull’altare dell’ingenuità, dell’alpino Lume che, non avendo resistito alla voglia di dichiararsi abile dattilografo, alla specifica domanda, era già stato ‘selezionato’ per ‘testare’ il grado di nonnismo locale. Subito si materializzò accanto a me un graduato, volto glabro e sorridente, dall’espressione pacata, che educatamente, senza alzare la voce chiese, ‘chi è destinato alla 106?’. Timidamente io e gli altri futuri mortaisti alzammo un braccio. Il ‘tavolettista’ Prati, il nostro interlocutore, si volse verso un gruppetto di alpini dicendo: ‘Sono i nostri’. Tutti si avvicinarono, ci diedero il benvenuto, si presero parte del nostro bagaglio aiutandoci a portarlo in camerata, dove ci ragguagliarono su ogni particolare che poteva tornarci utile nel prossimo futuro. Notata la nostra sorpresa dissero: ‘Qui da noi si usa così. Benvenuti nella compagnia 106 mortai pesanti. Pochi ma buoni .

    Sandro Sarzano

    ALPINI, UNA RARA NORMALITÀ

    Sì, nonostante lo scioglimento delle brigate alpine, con dimagrimento (al limite dell’anoressia) di quelle rimaste che non vogliamo nominare per non unire alla delusione (provata) il dolore (ancora) cocente sofferto. Malgrado l’abolizione improvvida per le evidenti, negative e prevedibili ripercussioni sociali avute sui giovani della leva militare, noi andiamo avanti restando quelli di sempre capaci di mantenere vive, vitali, immutabili e certe le nostre tradizioni. E, come alcuni pensano, non solo quelle militari. Voler parlare e scrivere di ‘questa razza’ speciale è come voler parlare e descrivere di cose, fatti, circostanze e uomini di un altro mondo, fuori da ogni stereotipo; sempre e comunque lontani e irraggiungibili da possibili limitazioni. Non vi sono alchimie segrete o filtri speciali. A loro è bastato aver indossato uno specialissimo cappello di feltro verde, pesante, sormontato da un’aquila ad ali spiegate perché il miracolo avvenisse e si ripetesse sempre e per tutti. Da quel momento è, per loro, nato uno stimolo di vita associativa, un impegno morale che via via s’è trasformato in accettazione istintiva, naturale di sentimenti legati ad antiche e forti virtù civili. Questo, tanto e solo per ricordare una data che riesce a definirli: 15 ottobre 1872! Oggi, ancor più di ieri, essi appaiono come contraddizione storica, come una irrazionale, ricercata vanità, un orgoglio di appartenenza, una irrefrenabile volontà di esserci e di manifestare in ogni occasione della vita del Paese. A parte la simpatica benevolenza che li circonda, è questo che pensano gli altri vedendoli camminare, sfilando, a testa alta, eretti nella figura anche se l’anagrafe dei più è già ricoperta di polvere. Questi uomini sono invece semplicemente e modestamente cittadini qualsiasi che vivono nella casa accanto alla nostra, nel piccolo borgo di montagna o nella grande e convulsa metropoli. Possono essere il gioviale vignaiolo delle Langhe, il taciturno guardiaboschi cadorino, l’attivo impresario vicentino, lo stimato sindaco friulano o il severo magistrato abruzzese. Ognuno è testimonianza di una solida e sentita fedeltà a ideali che il tempo e le convulse trasformazioni della società non sono riuscite a scalfire. Uomini in cui l’unica contraddizione, l’unica vanità, l’unico orgoglio è quello di essere o cercare di essere dei buoni padri di famiglia, degli onesti lavoratori. Per loro è doveroso e normale (dimentichiamo il banale piacevole) pagare le tasse, i contributi, la TV e rispettare l’orario di lavoro. Esempio quotidiano di probità, modestia e rettitudine, non vogliono insegnare niente a nessuno ma sono, senza saperlo e volerlo, un esempio per tutti. Ed è proprio questa eccezionale, e sempre più rara normalità che finisce per renderli così diversi e, per certi aspetti così lontani da tanti italiani. Quando non li vediamo sfilare, quando non vediamo i loro vessilli e gagliardetti al vento questi alpini, co
    n la prodigiosa vitalità e la contagiosa esuberanza che li contraddistingue, veri ‘inguaribili volontari della solidarietà’, sono impegnati in una nuova, lodevole, generosa e diversa avventura, portano, in qualche parte del mondo, con il lavoro e il sorriso un nuovo alito di vita di fiducia a chi è stato colpito dalla sciagura. Dopo tanto duro lavoro tornano fiduciosi ai loro accampamenti con le mani sporche di fango. Sono mani che non hanno nulla da invidiare alle più pulite. Quando tornano alle loro case, alle loro attitudini quotidiane non ricercano riconoscimenti, attestati di benemerenza, lodi, riflettori. Hanno già avuto tutto; il riconoscimento più alto e più ambito: aver dato agli altri una parte di loro stessi. È questa l’esaltante, impegnativa e felice esperienza vissuta e sofferta dalla grande, solida e sempre rinnovatasi Associazione Nazionale Alpini. Associazione d’Arma che il tempo è solo capace di consolidare.

    Gen. Aurelio De Maria

    Pubblicato sul numero di novembre 2009 de L’Alpino.